lunedì 5 settembre 2011

La teologia della tristezza.

Leggi prima la lettera

La teologia della tristezza di Alessandro Baoli







La blogosfera laica nei giorni scorsi ha riportato e variamete commentato la lettera di un anonimo lettore del settimanale Famiglia Cristiana al suo direttore, lettera che ha per oggetto (oggetto il cui interesse in questa circostanza è relativo) l’omosessualità. Nella lettera – non ha importanza se vera o no, perché comunque verosimile – un padre racconta al direttore del settimanale, don Antonio Sciortino, i propri travagli con il figlio dichiaratosi omosessuale, e con la moglie, accidentalmente catechista, che rifiuta sia il figlio che il marito; imputando indirettamente a quest’ultimo gran parte della ‘colpa’ per l’orientamento affettivo del figlio e la convivenza di questi col compagno. Una tragedia familiare.
Segue la risposta di don Sciortino: risposta intonata col solito pietismo, a metà tra la sottile ferocia verso le diversità (inevitabilmente, perché derivante dai documenti ufficiali del Magistero) e un invito assai generico all’umana comprensione e all’amore cristiano verso le creature di Dio, a maggior ragione se si tratta di un figlio. In sostanza, se «… non si è responsabili della condizione omosessuale, lo stesso non si può dire dei comportamenti. Sia pure con tutti i condizionamenti interni ed esterni che esistono». Un ritornello che conosciamo bene, e che è quello che lega mani e piedi al credente e gli impedisce di vedere e accettare il mondo per quello che è.
Però l’oggetto della questione, come dicevamo, poteva essere anche un altro, per questo non ci interessa se non marginalmente; quello che va rilevato invece è quell’alone di tristezza che pervade sia la lettera che la risposta: ciò che il lettore recepisce dal confronto tra il padre di famiglia e il prete-direttore di giornale, infatti, è quella cappa di cupa rassegnazione, una triste resa di fronte alla spietatezza del dogmatismo che è la vera sostanza della fede, e che va anteposto (tratto tipicamente cattolico) pure al diritto alla realizzazione e alla felicità della persona; quell’ottuso e antiquato dogmatismo che in molti campi ha dato vita a una vera e propria teologia della tristezza. Come se l’obbedienza ideologica del credente fosse ineluttabile, spinta fino nell’intimo della sua vita, senza possibilità di salvezza, senza scampo. Una fabbrica di malinconici perdenti, ansiosamente e perennemente tesi nel tracciare – dietro indicazione, anzi, su ordine superiore – la linea di confine tra un ideale piccolo mondo cattolico e la vastità dei minacciosi ‘nemici’; forse minacciosi ma certo liberi dalla castrazione di quel dogmatismo cieco.
Dispiace – altro dettaglio – anche perché Famiglia Cristiana (settimanale dei paolini, branca ecclesiale che ha in mano il grosso del’informazione e divulgazione religiosa) è un giornale non totalmente reazionario, ma persino “estremista”, se comparato al grosso della pubblicistica cattolica; perché di tanto in tanto – sui temi legati al sociale – si è occupata di smascherare alcune incongruenze del corrotto sistema di potere che sostiene – e ne è sostenuto – una altrettanto intellettualmente e moralmente corrotta Chiesa, che tradizionalmente appoggia governi che della tanto celebrata e idealizzata famiglia, per esempio, hanno sempre fatto strame (“può un cieco condurre un altro cieco? o non cadranno entrambi in un fosso?” Lc 6, 39-42). Ricevendo – il settimanale – in cambio i feroci attacchi della casta della politica.
Invece, come questa vicenda contribuisce a dimostrare, spesso sul piano teologico Famiglia Cristiana si perde, e non va più avanti del consueto conformismo, alimentando la sopra citata teologia della tristezza.
Chissà se prima o poi don Sciortino accetterà la sfida della modernità, e riuscirà ad esprimersi – tirando fuori un po’ di coraggio – secondo quello che è il comune sentire del grosso della “base” più avanzata dei cattolici. Che vivono nel mondo, invece che rinchiusi nei lussuosissimi palazzi d’oltretevere: basterebbe ascoltarli più spesso.

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